DOCUMENTO ASSEMBLEARE

1. INTRODUZIONE

L’associazione Arci POST, a due anni dalla sua nascita, ritiene opportuno convocare un’assemblea perconsolidare la struttura organizzativa e per rinnovare la linea politica del consiglio direttivo.

Ad oggi il POST si presenta con un vario bagaglio di esperienze che riconducono ad un’unica linea di azione: favorire la partecipazione sociale attraverso l’aggregazione. Ciò che si è cercato di fare nei primi due anni divita di Post è stato rendere collettiva la proprietà di uno spazio, finanziato dalle attività del circolocolombofili e dal comitato provinciale dell’Arci.

Era infatti emerso come uno dei problemi fondanti della nostra struttura sociale la tendenza individualista del sistema capitalistico, di conseguenza si è operato sia per ricostruire legami sociali informali sia per dimostrare la possibilità di organizzare la società in maniera diversa, partendo dalla collettività e non dall’individuo. A queste attività di aggregazione e di consolidamento sociale si sono affiancatisporadicamente momenti di riflessione collettiva su proposte culturali e politiche di diversa natura.

Questa linea di azione è ritenuta insufficiente per l’avvenire perché carente nel creare consapevolezzadiffusa.

Ecco, quindi, cosa vogliamo fare nei prossimi due anni.

Riteniamo che il sistema capitalista in cui viviamo sia umanamente, socialmente e ambientalmente insostenibile. Di conseguenza, il prossimo biennio sarà volto a combattere concretamente questo modello di organizzazione della società, proponendo un modello fondato sul collettivo e sulla democrazia sostanziale, ma soprattutto sarà caratterizzato dal creare consapevolezza in tutte le persone che condividono un sentimento di ingiustizia e disagio.

Tutto ciò passerà dal rendere collettivi i bisogni e i problemi di ciascuno, per creare una comunità consapevole delle storture del presente.

2. NEL MONDO

Oggi nel mondo 795 milioni di persone soffrono la fame, a 768 milioni di persone non è garantito l’accesso all’acqua potabile.

Tutto ciò è causato da un preciso modello di società che ha generato una percezione di benessere diffuso, accompagnata però inevitabilmente da crescenti ingiustizie e diseguaglianze.

Il capitalismo è quella forma di organizzazione sociale la cui condizione necessaria di sviluppo è l’accumulazione di denaro nelle mani di pochi.

Questo meccanismo fondamentale, che trasforma ogni aspetto del nostro vivere insieme in merce, implica tre conseguenze ineludibili: la povertà, la solitudine e la distruzione del pianeta.

2.1. Dell’ambiente

Oltre 150 anni fa Karl Marx scrisse che la fine del capitalismo sarebbe stata o la rivoluzione o la “comune rovina delle classi in lotta”. Oggi i contorni della rovina appaiono chiarissimi: la natura non può piùsopportare gli effetti nocivi causati da questo modo di produzione.

Quello del degrado ambientale è un tema ampiamente trattato dalla letteratura scientifica e politica, ed è importante coglierne il nodo fondamentale: la causa della distruzione dell’ecosistema terrestre non è solo il comportamento degli uomini e delle donne come individui ma il modello di organizzazione della vita sociale. La ricerca del massimo profitto, la necessità di aumentare sempre la produzione, la stessa idea di fondo secondo cui la natura e le sue risorse altro non sono se non merci sono tutte nozioni non compatibili con l’idea della sostenibilità ambientale: è infatti il modello economico che, ignorando la natura non escludibile dei beni comuni, impone la collettivizzazione dei costi e la privatizzazione dei benefici.

L’insostenibilità ambientale del capitalismo è ampiamente dimostrata sul piano teorico, ma niente la dimostra più della testimonianza di coloro che già ne soffrono gli effetti sulla propria pelle. E questo non tocca soltanto i popoli indigeni dell’Amazzonia e le numerose popolazioni del terzo mondo, ma anche moltissimi abitanti del nostro Paese: coloro che vivono nelle valli avvelenate del Sacco, del Lambro, del Sarno; nell’entroterra veneto, dove le industrie del petrolchimico raccomandano di lavarsi i denti prima e non dopo mangiato, perché l’aria è inquinata da polveri tossiche che si depositano in bocca (come se la gente non respirasse); nella tristemente nota terra dei fuochi.

2.2. Della povertà

Quando l’umanità ha raggiunto il suo massimo livello storico di produttività e di ricchezza si è ritrovata più che mai divisa da abissali diseguaglianze sociali: le sei persone più facoltose al mondo detengono una ricchezza pari alla metà più povera di donne e uomini, ovvero di tre miliardi e mezzo di persone.

Questo è di per sé impressionante, ma è un dato che rischia di risultare troppo astratto: è dunque opportuno mettere a fuoco un esempio concreto di questo livello di ingiustizia. In vaste parti della terra è ritornata la carestia, che nel secolo scorso era stata progressivamente limitata a poche aree tra le più sperdute e che oggi affligge nuovamente milioni di uomini e di donne in Africa orientale, Asia centrale, Sudamerica, e la fame colpisce innumerevoli altre persone che non vivono in regioni prive di risorse alimentari ma non possono permettersi l’acquisto dei viveri. Ebbene, per effetto della crescita delle diseguaglianze ad essa si accompagna un inaccettabile livello di spreco alimentare, tale per cui il cibo prodotto e gettato via nella sola Europa è più di quello che occorrerebbe a sfamare l’intero continente Africano, e tanto la fame quanto lo spreco alimentare non fanno che crescere.

Tutto ciò è causato da un sistema che si nutre della povertà di molti per produrre sempre più e sempre “a meno”.

È bene ricordare anche che le diseguaglianze dividono sì i paesi ricchi dai paesi poveri, ma anche e soprattutto i ricchi e i poveri all’interno dei paesi. In Italia, per esempio, sono 5 i milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta (escludendo i residenti senza cittadinanza).

2.3. Della solitudine

Il modo attuale di vivere insieme, fondato sull’individualismo può generare solo solitudine. Se i ricchi quartieri residenziali si barricano dietro allarmi e cancelli, se tanti ragazzi non trovano compagnia altrove se non dove possono navigare in rete, se in un vagone della metro l’assordante silenzio non è disturbato da altro che dalle suonerie delle notifiche degli smartphones, non significa forse che non viviamo affatto insieme bensì ciascuno solo, sebbene tutti vicini?

Questo genere di solitudine si accompagna a una diffusa diffidenza: siccome la società in cui viviamo è insieme individualista e competitiva, le donne e gli uomini sono sempre più attenti al loro proprio interesse e cinici nei confronti dell’altro. Persino a scuola e nelle università, la competizione è divenuta regina a scapito della cooperazione. Una delle conseguenze più drammatiche di tutto questo è l’emergere di un nuovo tipo di isolamento: l’individuo, come consumatore, risulta essere apparentemente autosufficientenella risposta ai bisogni primari a causa della scelta politica del mercato come sistema allocativo dellerisorse scarse. Quest’autosufficienza nasconde, però, la distruzione di legami sociali informali.

Nel corso della storia dell’umanità, ogni qualvolta si sono manifestate tendenze quali individualismo, rapporti sociali improntati al cinismo e alla diffidenza, razzismo, nazionalismo, si è poi verificata una guerra.

2.4. Del destino della nostra generazione

È infatti giunta l’ora di farla finita con tutto questo. Per noi che viviamo oggi, e per i giovani d’oggi in particolare, questa non è più solo una nobile scelta: è l’unica scelta ragionevole. Come abbiamo contribuito a spiegare, infatti, l’orrendo destino della rovina e della barbarie non è più solo il destino che il capitalismo riserva a tutti noi, ma una minaccia incombente, prossima, vicinissima. Per i nostri predecessori, partecipare a questa lotta significava preparare un futuro migliore per le generazioni successive. Per noi, invece, significa coltivare la speranza di un futuro vivibile per i nostri figli se non proprio per noi. È dunque imperativo mobilitarci adesso.

 

3. A PARMA

3.1 Di una città in mano a pochi

La città di Parma, a partire dalla fine degli anni ’90, ha conosciuto una stagione di privatizzazione dei centri decisionali, ovvero la scomparsa della possibilità per i cittadini di partecipare in modo incisivo alla determinazione delle scelte comuni.

Le amministrazioni Ubaldi e Vignali hanno inaugurato un modus operandi fondato su una visione espansionistica di una Parma da copertina, che da lì a pochi anni avrebbe dovuto dotarsi, secondo la distorta versione di quelle giunte di destra, di una metropolitana, di un aeroporto internazionale, di un enorme ponte nel deserto e di un faraonico progetto di rifacimento della stazione dei treni, solo per citare qualche esempio. Chi pensa però che queste scelte siano state dettate solamente da una visione distorta e megalomane della città sbaglia: si è trattato, invece, di un preciso meccanismo di restituzione di favori sotto forma di appalti a quei centri di potere e interessi che ai vari Ubaldi e Vignali avevano garantito finanziamenti e voti, come hanno anche dimostrato i provvedimenti giudiziari che hanno coinvolto la giunta Vignali stessa, e che nel 2011 ne hanno poi portato alle dimissioni. Le dimissioni di quella giunta sono state chieste a gran voce da una città che, scendendo in piazza per diverse giornate consecutive, in quell’occasione ha dimostrato, contrariamente ai suoi governanti, un forte spirito ribelle e anticonformista. Come i parmigiani sanno bene, la nostra, politicamente parlando, è sempre stata in tempi recenti una città d’avanguardia nel peggio: craxiana prima di Craxi, berlusconiana prima di Berlusconi, grillina prima di Grillo.

E così il vento di rivolta che soffia sotto i portici del grano nell’estate del 2012 si trasforma, pochi mesidopo, nell’elezione di Federico Pizzarotti, primo sindaco a 5 stelle di una città capoluogo di provincia. Se è vero che quell’elezione è stata determinata da una forte componente anti-sistema, lo stesso non si può dire per le scelte politiche che l’amministrazione Pizzarotti ha posto in essere dopo il suo insediamento. L’attuale Sindaco ha infatti dimostrato di trovarsi benissimo al tavolo degli industriali, agli interessi dei quali non solo non è mai stato in grado di opporsi, ma ai quali anzi ha deliberatamente consegnato il timone per lo sviluppo dei settori strategici della città, come urbanistica, cultura e servizi.

3.2. Dell’’aggregazione come fonte di profitto

La stessa logica domina anche l’industria culturale e ricreativa della città. Il settore è di fatto caratterizzato dalla presenza di pochi soggetti, per altro tutti a scopo di lucro, i quali spesso e volentieri ottengono lauti finanziamenti pubblici (soprattutto comunali) per l’organizzazione di concerti ed eventi vari. Ed è proprio in questo contesto che si inserisce la necessità, da troppo tempo ignorata, di dar vita a un luogo di aggregazione giovanile che, totalmente auto-organizzato ed indipendente, sia in grado di dare risposte collettive al bisogno di socialità che legittimamente avanzano le giovani generazioni. Ed è dall’intenzione di caratterizzare questo lavoro come la proposta di un meccanismo allocativo diverso dal mercato che nasce l’opportunità di intaccare la tendenza diffusa, rappresentata, invece, dall’accumulazione capitalistica.

Quello che fino ad oggi è avvenuto (ovviamente non solo nella nostra città) e a cui i giovani cittadini di Parma sono perfettamente abituati, non avendo, fatta eccezione per la presenza di pochissimi spazi occupati, mai avuto esperienza di un modello diverso, è infatti la messa a valore di scambio del più istintivo bisogno di aggregazione e socialità che fa dell’uomo un animale sociale e politico.

3.3. Della mancanza di una coscienza collettiva generazionale e di classe

Ribellarsi a questo modello è non solo giusto, ma necessario e urgente, perché è l’unico modo per farnascere la consapevolezza della necessità di un cambio di paradigma anche nella risposta a tutti quegli altri bisogni umani che non siano etichettati come “sociali”. Così come coloro che detengono il capitale si arricchiscono dalla messa a valore del lavoro dei propri sottomessi, ecco che i proprietari dei locali della città, le grandi organizzazioni di eventi, fanno lo stesso della nostra necessità di passare tempo insieme, senza che per altro, provocatoriamente parlando, ci sia corrisposto nessun salario.

L’Arci, insieme ai suoi circoli, è, deve e può rappresentare l’esperienza concreta di un modello diverso, in cui l’assenza della proprietà privata si configuri come presupposto necessario per l’educazione dei propri soci all’idea che sia possibile una produzione auto-organizzata e paritaria (nel nostro caso, intrattenimento) con il solo fine di dare una risposta ai propri bisogni e senza alcuno scopo di lucro. Dall’esperienza collettiva di gestione di uno spazio comune, come è oggi il nostro circolo, passa la genesi di una coscienza collettiva, di classe e generazionale, che, come è inevitabile, non piova dall’alto, ma sorga dal riconoscimento dei propri bisogni e di quelli degli altri.

 

4. Il POST

4.1 Della nascita e funzione iniziale

Preso atto delle circostanze in cui il presente ci costringe, nasce la necessità impellente di rispondere collettivamente. Il Circolo Arci POST nasce e si sviluppa dunque nell’intento di mettersi a disposizione di una città come punto di riferimento per la riapertura di fronti di conflitto che mettano in crisi l’attuale organizzazione sociale, economica e politica.

Si è visto, nei paragrafi precedenti, come il nostro mondo e la nostra stessa città siano progressivamentespinte verso un modello insostenibile che valorizza la competizione e l’isolamento, che premia i primi emarginalizza gli ultimi, che traspone gli obiettivi di realizzazione personale e di ricerca della felicità, imprigionandoli in una sfera economica alienante e disumana. La nascita del POST avviene, dunque, nel solco del mutualismo, dell’aggregazione, della volontà di includere e rappresentare la totalità dei cittadini in un contesto di valorizzazione delle capacità e delle passioni, con la convinzione che riflettere ed agire al fine di ripensare le basi stesse della nostra società sia una necessità inderogabile.

Attraverso uno strumento, come può essere un circolo, di inclusione, informazione, partecipazione e organizzazione collettiva, il POST libera l’aggregazione dalle catene del profitto e si pone l’obiettivo di fare dell’aggregazione stessa un momento decisivo della critica alla società esistente.

È stata quindi questa la bussola che, fin dalle origini, ha guidato il nostro circolo. Nonostante ciò, a due anni dalla nascita, non possiamo esimerci dall’operare una seria autocritica.

4.2 Della consapevolezza che manca

Alla luce di quanto scritto in precedenza è bene riconoscere gli sforzi e gli obiettivi raggiunti, ma è altresì dovuta una disamina degli errori e delle lacune che in futuro andranno affrontati e corretti.

Possiamo dire, non senza semplificazioni, che le principali problematiche che la gestione del nostro circolo ha dovuto (e dovrà) fronteggiare afferiscono a un generale e diffuso problema di consapevolezza della funzione profonda a cui il POST aspira: ci siamo infatti concentrati negli ultimi due anni sulla creazione di uno spazio che fosse aperto a tutti e che promuovesse l’aggregazione libera dal profitto, dimenticando però, il più delle volte, di conferire ad essa un significato incisivo. Si sono perse occasioni per organizzare il pensiero, per trasmettere messaggi sul nostro lavoro e recepire contenuti dai nostri soci, per approfondire la nostra conoscenza e i nostri contatti con la realtà circostante e per intraprendere azioni significative sul piano politico.

È, quindi, imprescindibile una presa di coscienza collettiva, a partire dai soci attivi del circolo per giungere agli sporadici frequentatori: un momento di riflessione come il congresso per riconoscere le funzioni, gli obiettivi e le pratiche che il circolo ha fatto (o farà) proprie. Questo ha la doppia valenza di permettere una gestione consapevole e, di conseguenza, armonica e di facilitare la comunicazione ai neofiti o agli esterni della nostra volontà di condividere e rispondere ai loro bisogni.

Tale momento ci aiuta, dunque, a calare la nostra realtà di circolo entro la società di cui siamo parte e ci impone una approfondita analisi del ruolo che abbiamo avuto e possiamo avere entro essa.

Ecco, allora, la necessità di interrogarci sulla nostra capacità di arrivare a persone lontane dal nostro microcosmo o da quello dei soci attivi, o sulla possibilità di intervenire nelle situazioni di disagio cui la nostra città ci espone, o, ancora, sulle potenzialità inesplorate di organizzazione del pensiero e di trasmissione di messaggi. Abbiamo bisogno di ampliare il nostro orizzonte valoriale a partire dai già citati cardini di mutualismo e inclusione, fino a giungere a quelli mai trascurabili di antifascismo e antirazzismo. Dobbiamo condividere un sistema morale che ci definisca come circolo e ci caratterizzi per le funzioni per cui siamo nati, che ci renda resilienti e coerenti nelle nostre elaborazioni e nelle nostre attività.

 

4.3 Della condivisione dei problemi e creazione di una coscienza sociale

Abbiamo il compito di interiorizzare e declinare le criticità del sistema descritte in questo documento a una dimensione locale e collettiva, riconoscendo nelle dinamiche sociali ed economiche in atto le cause e leconseguenze che generano le condizioni esistenti. In quest’ottica è fondamentale intraprendere un percorso di individuazione e condivisione dei problemi, accettando distinzioni generazionali, geografiche osociali, ma senza mai rinunciare alla ricerca di una visione d’insieme che permetta di spiegare i fenomeni inatto.

La strada da percorrere non può che essere edificata su momenti di conoscenza e approfondimento, su un regolare confronto fra i frequentatori del circolo, su una disponibilità alla critica dell’organizzazione sociale e del modo di produrre dominanti e su un rinnovato entusiasmo per la gestione e la trasformazione della cosa pubblica e, in senso più ampio, della comunità.

Ogni socio del circolo dovrà, dunque, essere coinvolto nel percorso di creazione di una coscienza sociale condivisa, che rigetti alcuni dei valori dominanti e ne promuova altri, utili alla costruzione di una città più equa e, in ultima istanza, felice.