Uno dei più grandi insegnamenti della storia è la narrazione dell’evoluzione dell’uomo in lotta contro lo stato di natura.
In principio, era solo il mondo, con la natura e gli animali che la popolavano, mentre l’evoluzione ha consentito all’essere umano di svilupparsi in un senso differente rispetto alle altre specie.
Ciò è stato reso possibile grazie a numerosi fattori, tutti importanti, quali la capacità di socializzare in senso comunitaristico, una spiccata memoria, unita all’intelligenza creativa, e la possibilità di astrarre. Anzi, proprio quest’ultima è un tratto caratteristico e inedito dell’evoluzione della specie umana: sulle altre due, per esempio, le api hanno una struttura sociale complessa, rigida e assai organizzata, mentre altri animali presentano intelligenze (come i delfini) di gran lunga superiori alle potenzialità della mente umana.
L’uomo, allora, ha la possibilità di astrarre. Facoltà, questa, che riguarda l’insopprimibile esigenza di creare qualcosa che mancava nel mondo esistente prima della storia. Proprio in ciò si ha l’inizio della storia: è la storia dell’uomo che ci insegna che il cammino dell’umanità non è altro che la continua lotta rispetto allo stato di natura.
L’astrazione, quindi, ha determinato la scoperta di un mondo che non esiste, di regole che mancano nella realtà materiale, e l’emersione di valori che combattano l’ingiustizia della vita terrena. Grazie alla forza dell’astrazione, l’uomo si è dato regole di diritto per vivere in società organizzate; ha coltivato la filosofia, e ha scoperto il valore della divinità. Si è illuminato di un cammino tracciato dai suoi pari, mosso, in tutto questo, dalla battaglia continua verso la rassegnazione.
Tutto questo percorso può essere sintetizzato nel gioco fra stasi e rivoluzione: da un lato, il lento cambiamento, derivato dalla metabolizzazione delle rotture del sistema; dall’altro i balzi in avanti della storia, in cui l’uomo colleziona le vittorie più significative verso lo stato di natura. Costruisce le piramidi, imponendosi sulle bellezze del mondo; crea un sistema commerciale avanzato, battendo moneta che rappresenta un valore; rivoluziona l’ordine giuridico divino, e fonda la Nazione; scopre nuove tecnologie, adattandosi a nuovi stili di vita, dalla prima all’ultima (oramai la quarta) rivoluzione industriale.
Nel flusso della storia, anche il femminismo ha trovato spazio, e la donna ha emancipato il suo ruolo sociale da quello di moglie e madre, e si è resa indipendente e autonoma. La rivendicazione, però, ha spesso contrapposto due modelli, quello femminista e quello maschile: il punto di riferimento è stata una società che si è formata nel corso di secoli, e che mostrava un angolo di visuale prettamente maschile. Il divario salariale, in questo senso, è un chiaro indice.
Ma se guardiamo, con la maturità attuale, il rapporto fra uomo e donna partendo dallo stato di natura, la questione di genere può essere vista su nuove basi, con riflessi sul contesto sociale che viviamo.
La donna non è affatto il «sesso debole»: ha una vita media più lunga dell’uomo, secondo l’evidenza statistica, e la biologia ci insegna che vive non poche difficoltà fisiche fin dalla giovane età, come le mestruazioni, per poi entrare in menopausa, e tutto questo non tocca l’uomo.
Ma v’è di più. La donna è anche custode della vita naturale, l’unica in grado di procreare. In questa esperienza, lei soffre, ponendo la propria sofferenza a servizio della vita. Inutile ricordare che in numerose religioni dell’antichità, la dea della fertilità, Madre Terra, era rappresentata da una scultura dai tratti femminili e fertili.


Dal canto suo, l’uomo fornisce una manciata di gameti: ben prima di assumere le vesti di «padre e padrone», ha svolto un ruolo sociale, nelle comunità primitive, di colui che protegge la donna, svolgendo qui una funzione di salvaguardia per la riproduzione della specie. Compiti di servizio, quindi. La forza fisica, che tra l’altro oggi la società rifiuta come parametro di giudizio, perde pregio di fronte alle qualità della donna, che potremmo piuttosto chiamare «fortezza».
Dalla funzione protettiva alla prevaricazione, il passo è stato breve, ed è facilitato proprio dalla capacità di astrazione dell’essere umano. La potenzialità dell’astrazione ha combattuto lo stato di natura, creandone uno secondo modelli fortemente sbilanciati. Ciò ha portato, per esempio, alla creazione di quelle regole che hanno tramutato in diritto il predominio del maschio sulla femmina, trasferendo in altri settori le prevaricazioni, fisiche, dell’uomo. Non molti decenni fa, infatti, vi erano norme di questo tenore:«Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza» (art. 144 cod. civ. nella versione del 1942).
Alla luce di quanto fin qui detto, è da rimeditare il rapporto fra stato di natura ed artificio.
La necessità di procedere a disvelare una tale, falsa, rappresentazione del ruolo naturale della donna nella società era già chiara a Platone, per il quale non ci sarebbe stata alcuna pubblica funzione che fosse riservata alla sola donna, o al solo uomo, in quanto fra i due sessi la natura aveva distribuito equamente le attitudini, cosicché la donna avrebbe potuto svolgere tutti gli stessi compiti che svolge l’uomo (Platone, Repubblica, V, 455D-456E).
In questo senso, la stessa lettura dei principî e delle disposizioni fondamentali assume un colore inedito rispetto al significato che vi abbiamo sempre assegnato.
L’art. 3, primo comma, Cost. dispone che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»: una lettura più classica, e diffusa, imputa alla norma la funzione di parificare i sessi superando necessariamente la diseguaglianza, figlia di quella rivendicazione sociale della lotta per i diritti delle donne.
Si può, però, accostare un nuovo valore dell’uguaglianza, e considerare queste parole non come un invito alla battaglia, ma come il riconoscimento di un principio, che quindi prenda atto del valore, pari, in natura della donna rispetto all’uomo, e dell’eguale dignità di essa. Si può tornare a valorizzare il momento di partenza. E non solo rispetto al «sesso debole». Anche gli altri fenomeni di diseguaglianza, quali la differenza di orientamento sessuale, per esempio, non sono altro che conseguenze di un simile risultato.
In linea con quanto detto, la posizione della donna nella società viene addirittura a elevarsi, perché ampliando lo sguardo agli ampî orizzonti del destino dell’umanità, senza il ruolo della procreazione cessa e viene meno il progredire della storia. La stessa scelta di non essere madre, ma di vivere la vita senza volgere mai lo sguardo alla procreazione, è la conseguenza forte di una emancipazione mentale resa possibile dalla vittoria della sua autonomia sulla visuale maschile del mondo.
La ripercussione è forte. Riconoscendo una funzione sociale fondamentale della donna, unica portatrice in grembo del bambino, alla Repubblica viene ascritto il compito di garantire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, secondo comma, Cost.) ed è l’uomo che può riacquisire un senso, così naturale quanto primitivo, di protezione verso la donna, dovendo anche lui «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, secondo comma, Cost.).
Qui l’uguaglianza è valorizzata in senso più realistico: uguaglianza non è identità, perché ciò è smentito dalla natura, ma la partecipazione dell’uomo a quelle sofferenze della donna sono la forza che serve a riequilibrare la questione di genere. Senza creare, insomma, una diseguaglianza «all’opposto». Quelle che vengono viste come debolezze della donna (intesi anche la donna che non sceglie la maternità) non sono che il riflesso della «fortezza» con cui affronta la vita.
In linea con ciò, il femminismo inteso come lotta per la parità presenta indubbiamente una utilità immediata della rivendicazione sociale contro il sopruso del cosiddetto «sesso forte»: ma solo immediata. Invece, comprendere più profondamente che l’uomo non si può fregiare della forza che vantano le tradizioni paternalistiche consente di rifondare il rapporto fra l’uomo e la donna all’interno della società, e elevare la salvaguardia della di lei dignità quale cardine della convivenza sociale.