Anni fa, nell’aprile del 2020, avevamo pubblicato un articolo sullo stato delle carceri italiane. Mercoledì 27 novembre, a quattro anni di distanza, il nostro circolo ospita – a testimonianza del perdurante interesse della nostra associazione – un’iniziativa sullo stesso tema.

La Costituzione italiana, all’articolo 27, stabilisce un principio fondamentale: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Questa non è solo una dichiarazione di principio, ma una guida per l’intero sistema penale, un promemoria che la funzione della pena non si esaurisce nella punizione, bensì punta alla rieducazione e al reinserimento sociale.

Eppure, carcere, sanzione e punizione sono concetti che occupano un posto particolare nell’immaginario collettivo. Per molti, si tratta di questioni che riguardano esclusivamente i gravi trasgressori: persone che hanno commesso azioni orrende, riprovevoli, illegali. Ma è importante ricordare che nessun cittadino è davvero estraneo alla questione della detenzione. L’atto d’incarcerare qualcuno avviene in nome del popolo italiano, ed è compiuto dai magistrati conformemente alla legislazione. La maggioranza delle persone si considera lontana da questi problemi, ma lo è solo dal reato, non dalla pena.

La complessità del crimine e della pena

Dietro ogni reato c’è una storia. Non esistono persone intrinsecamente malvagie: chi delinque è spesso il prodotto di contesti difficili, di traumi o di mancanze profonde. Pensare che un individuo sia definito solo dalle sue azioni peggiori è ingiusto e pericoloso, perché chiude la porta a qualsiasi possibilità di cambiamento.

Si assiste spesso a un fraintendimento che riguarda la distribuzione dei ruoli tra chi è coinvolto in un crimine: la rappresentazione consueta oppone vittima e colpevole, associando alla punizione del secondo una sorta di riconoscimento alla prima. Tuttavia, la pena attribuita al reo può offrire una soddisfazione alla vittima solo nella forma del risarcimento. Diversamente, essa non è che vendetta. La vera funzione della punizione è statale, e lo Stato, agendo in nome del popolo italiano, ha il compito di tutelare la sicurezza collettiva.

Un sistema carcerario in crisi

Nel nostro sistema carcerario, però, i principi costituzionali spesso non trovano applicazione. Sovraffollamento, carenze igieniche, violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno, violando i diritti fondamentali dei detenuti e annullando qualsiasi possibilità di rieducazione.

I numeri parlano chiaro: in Italia, il tasso di recidiva tra i detenuti è del 70%. Un dato che dimostra il fallimento del sistema attuale. Ma esiste un dato incoraggiante: tra coloro che durante la pena hanno avuto accesso al lavoro, il tasso di recidiva scende al 2%. Questa differenza abissale indica la strada da percorrere: formazione, opportunità lavorative e supporto psicologico possono trasformare la pena in un reale percorso di reintegrazione.

Il carcere come specchio della società

Il modo in cui trattiamo i detenuti riflette la salute della nostra democrazia. Se il carcere si trasforma in un luogo di esclusione e abbandono, anziché di rieducazione, falliamo non solo come istituzioni, ma anche come collettività. Ogni detenuto che esce dal carcere senza prospettive è una minaccia per sé stesso e per la società.

La civiltà ha superato in larga parte del mondo la pena di morte, e l’Italia si è distinta come patria del pensiero illuminato di Cesare Beccaria, che scriveva: «Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime». Da allora, il principio di umanità nella pena è diventato un caposaldo del nostro ordinamento.

Tuttavia, possiamo davvero dire che la dignità dei detenuti sia rispettata nelle nostre carceri? Le condizioni in cui molti di loro vivono suggeriscono il contrario. Eppure, il reintegro pacifico e positivo dei condannati nella società dovrebbe essere la nostra priorità. Non si tratta solo di una questione di sicurezza collettiva, ma di umanità e giustizia.

Giustizia riparativa

La giustizia riparativa offre un approccio innovativo, che punta a costruire un dialogo tra colpevole e vittima. Questo percorso permette al colpevole di comprendere l’impatto delle sue azioni e alla vittima di ottenere risposte e riconoscimenti. Non si tratta solo di punire, ma di costruire un percorso di riflessione e cambiamento.

Investire nella rieducazione non è solo un atto di civiltà, ma anche una strategia per garantire la sicurezza collettiva. Ogni euro speso in formazione, lavoro e supporto psicologico per i detenuti è un investimento per un futuro più sicuro e giusto. Solo così possiamo costruire una società capace di non limitarsi a punire, ma di accogliere e trasformare. Questo è il vero senso della giustizia in una democrazia.

È il desiderio di ottenere il più pacifico e positivo reintegro dei condannati nel consesso civile alla fine della loro pena che ci spinge a interrogarci sulle condizioni della carcerazione nel nostro paese? Certo, lo è assieme all’angoscia di considerare ciò che in nostro nome si fa a decine di migliaia di detenuti da nord a sud: se essi debbono riflettere sulle loro colpe, anche a noi spetta ponderare le nostre responsabilità di cittadini.