Tutti gli analisti finanziari e gli esperti di economia concordano nell’indicare l’epidemia da nuovo Coronavirus come la causa di quella che sarà la più grande crisi economica mondiale dopo il 2008.
Altri, sono addirittura arrivati a paragonare quella che vivremo a una situazione di ricostruzione post-bellica.

Innanzitutto, un chiarimento. Come mai un’epidemia può essere causa di una crisi economica tanto grave?
La risposta è banale, e viene dal generale blocco della produzione che l’aumento dei contagi impone come misura di contenimento necessaria per tutti i Paesi coinvolti.
Le fabbriche devono fermarsi per evitare di trasformarsi in focolai incontrollati, e questo non può essere un bene per nessuno. A differenza che per la Terra, ma questa è un’altra storia.
Appare quindi chiaro che quella che ci apprestiamo a vivere inizierà come una crisi di offerta. Se le imprese si fermano, smettendo di produrre, il reddito nazionale, già in stagnazione da parecchi anni, non può che diminuire. Una minore reperibilità di beni e servizi sui mercati ha generalmente conseguenze negative per i consumatori, che si ritrovano a dover pagare prezzi più alti per le poche merci a disposizione, e per le imprese, che faticano a trovare acquirenti per le proprie produzioni.
Ad oggi, in Italia, i lavoratori di queste aziende percepiscono comunque un’indennità di Cassa Integrazione, strumento di assistenza che prontamente è stato esteso ad ogni attività produttiva. Ma quando il lockdown finirà, e con esso gli aiuti di Stato, non vi è nessuna garanzia circa l’eventualità che le stesse aziende riescano a reperire sul mercato le condizioni per continuare a produrre in maniera profittevole. È del tutto probabile infatti che per quella data, ad oggi impossibile da pronosticare, la crisi si sarà già prontamente diffusa sul lato della domanda, sia interna che esterna. Molti individui avranno perso il lavoro, molti altri saranno in attesa di ricevere le rate di CIG. Il commercio globale, rallentando, causerà una frenata delle esportazioni. Quando le imprese riapriranno dovranno fronteggiare uno scenario macroeconomico altamente instabile. A maggior ragione considerando che diversi paesi sono oggi a diversi “stadi evolutivi” della malattia: alcuni più avanti, come la Cina o l’Italia; ed altri più indietro come gli USA, ancora in piena crescita esponenziale. Come sappiamo, i mercati finanziari sono genericamente avversi al rischio ed in condizioni di crisi sono restii a dare liquidità alle aziende, contribuendo così a una probabile catena di fallimenti.
Come ho cercato di riassumere, la crisi inizierà dal lato dell’offerta, per poi brevemente spostarsi su quello della domanda. Le linee di credito private si restringeranno, causando fallimenti e disoccupazione.

Come è ovvio, però, non tutti risentiremo della crisi nello stesso modo. Questa epidemia avrà anche significativi effetti redistributivi sull’economia italiana e mondiale: causando un ampliamento della forbice delle disuguaglianze.Da qui sorgono la seconda domanda e il titolo di questo articolo: chi pagherà tutto questo?
Se è infatti vero che siamo tutti uguali agli occhi di un virus che non distingue le sue prede, lo stesso non si può dire in nessuno degli altri scenari coinvolti. Le probabilità di contagio sono diverse per ciascuno di noi; e genericamente sono più elevate per le fasce di popolazione più povere, costrette – per esempio – a lavorare in grosse e affollate catene di montaggio. Allo stesso modo, è molto più probabile che la capacità di produrre reddito perduri anche in tempi di quarantena per coloro che svolgono mansioni convertibili in telelavoro; il che, come è facile intuire, spesso e più volentieri accade per le fasce di popolazione ad alto reddito. Se impiegati e dirigenti possono trasferire l’ufficio dalla sede legale della compagnia alla propria abitazione, essendo così in grado di continuare a produrre il proprio reddito in condizioni di sicurezza, lo stesso non si può dire per chi svolge mansioni più umili, come gli operai, i netturbini, i muratori. Quando questa fase sarà finita, e le imprese riacquisteranno il diritto di licenziare i propri lavoratori (i licenziamenti sono stati ad oggi bloccati per decreto, in Italia), è altrettanto scontato prevedere che saranno proprio questi impieghi a perdere per primi il posto di lavoro. La crisi post-epidemia, se incontrollata, causerà un vistoso aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche, il che non può che contribuire nell’inasprire la caduta dal lato della domanda.

Lo scenario aggregato però, seppure facilmente leggibile, è spaventoso quanto imprevedibile nei termini dell’entità dei numeri coinvolti: nessuno oggi può dire con certezza quanti punti di PIL perderemo, o quante persone perderanno il lavoro. Come è ovvio: l’entità dei numeri di questa crisi dipenderà fortemente da quanto prolungato sarà il regime di lockdown, oltre che dalla capacità di risposta dei governi nazionali.

E da qui veniamo all’ultima domanda: esiste qualcosa che possiamo fare per contenere tutto questo?
Come si accennava in precedenza, questo blocco generale dell’offerta di beni e servizi su ogni mercato potrà causare un aumento dei prezzi e una conseguente diminuzione del valore della moneta e dei salari, che perderanno così parte del proprio potere d’acquisto. I governi nazionali dispongono principalmente di due strumenti per contrastare le conseguenze drammatiche di questa come di ogni altra crisi: la politica fiscale e la politica monetaria.
Sfortunatamente però, nel contesto di questa specifica recessione, gli strumenti in dote alla politica monetaria sono limitati in partenza. Da anni infatti sia la BCE che la FED stanno finanziando imponenti programmi di acquisto di titoli sui mercati finanziari che hanno l’intenzionale effetto di abbassare i tassi di interesse e quindi di facilitare l’accesso al credito e alla moneta. Oggi, nell’ottica di una risposta alla crisi finanziaria del 2008, i tassi di interesse sono intenzionalmente tenuti prossimi allo zero, e le banche centrali non avranno quindi molto spazio di manovra per combattere la crisi con politiche monetarie espansive che sostengano la domanda aggregata.
Si rende dunque necessario l’utilizzo della leva fiscale come unico strumento di politica economica in grado di sostenere la domanda e scongiurare gli effetti devastanti della crisi per consumatori e imprese. Nel concreto, i governi nazionali hanno a disposizione l’utilizzo dei propri bilanci per il finanziamento di programmi di spesa che forniscano aiuti straordinari e di natura esogena ai bilanci famigliari e di esercizio. Chiaramente, esistono diverse forme di sussidi che il policy maker può porre in essere: sconti fiscali, trasferimenti una-tantum, indennità di disoccupazione, nazionalizzazioni e investimenti pubblici nell’economia. Questi sono solo alcuni esempi di come l’ingegneria fiscale può liberare risorse per il settore privato trasferendole dal bilancio dello Stato. La condizione necessaria perché queste ricette possano funzionare è che siano in grado di sostenere e spingere la domanda aggregata, che deve subire uno shock positivo di natura esogena in grado di compensare quello, altrettanto esogeno, negativo causato – come si è visto, sia sulla domanda che sull’offerta – dal diffondersi dell’epidemia.
Altrettanto chiaramente, però, non tutti gli strumenti sono ugualmente efficaci ed efficienti, così come non tutti gli strumenti sono ugualmente costosi,e sarà quindi compito del Governo mettere in atto una risposta che sia allo stesso tempo sostenibile e audace.

Esistono due forme di finanziamento delle politiche fiscali: il debito e la spesa corrente. Per reperire le risorse necessarie a pagare investimenti pubblici che impieghino i disoccupati post-Covid 19 -per esempio – è possibile emettere nuove cedole di debito pubblico, finanziando la spesa di oggi con un prestito che dovrà essere ripagato fra cinque, dieci o chissà quanti anni. E se questo può apparire vantaggioso, perché in un certo senso allontana il problema a un orizzonte temporale in cui l’epidemia sarà finalmente sconfitta; in realtà potrebbe non essere tanto facile per quei paesi che, come l’Italia, sono già costretti ogni anno a pagare una grossa quota di interessi sul proprio (enorme) stock di debito pubblico. I governi (soprattutto i nostri) sono soliti utilizzare questo strumento proprio perché, allontanando il problema nel tempo, aumentano il proprio consenso, e scaricando le conseguenze di queste scelte sulle generazioni future, non saranno mai chiamati a risponderne. La seconda possibilità per finanziare politiche fiscali espansive è l’utilizzo della spesa corrente: pagare le spese di oggi con i soldi raccolti con le tasse di ieri, o con quelle di oggi.
A tal proposito, si incorre però in un ulteriore rischio, ovvero quello di deprimere ulteriormente l’economia. Perché ciò non avvenga, il prelievo fiscale deve essere indirizzato verso quelle categorie di persone fisiche che, avendo una grossa disponibilità economica, dispongono dei mezzi per mantenere inalterato il proprio livello di benessere. L’altra condizione che si rende necessaria per evitare di impoverire un sistema già privo di linfa è di colpire risorse che, seppur ingenti, vengono mantenute improduttive:i grandi patrimoni.
La necessità di un prelievo fiscale patrimoniale appare dunque oggi, alla luce del ragionamento condotto finora, come il più vantaggioso strumento fiscale che, in tempi di una crisi probabilmente mai vista, può garantire al sistema l’introduzione di una nuova linfa produttiva. Uno strumento che inverta la tendenza naturale di questa come di tutte le altre crisi: ovvero di aggravarsi in seguito all’innescarsi di una spirale di redistribuzione dal basso verso l’alto.