Con i primi contagi confermati in Italia in poco più di un mese si è innescata una mobilitazione repentina internazionale e nazionale con pochi precedenti storici: le scuole sono state chiuse, le manifestazioni sono state negate, molti voli sono stati cancellati e abbiamo visto spuntare migliaia di mascherine.
Ad oggi il bilancio delle vittime corrisponde a 17 669 persone in rapporto a 139 422 contagiati, numeri che continuiamo a vedere crescere ogni giorno e che contribuiscono ad alimentare la dilagante fobia del CODIV-19.
A questi dati è opportuno aggiungere quelli pubblicati dall’Università di Bari, i cui studi hanno permesso di evidenziare una stretta correlazione tra l’incidenza del virus e le concentrazioni di particolato atmosferico (come PM10 e PM25) che funge da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, favorendone la diffusione nelle zone più inquinate.
Non rappresenta però una novità che l’inquinamento atmosferico favorisca lo sviluppo di patologie negli abitanti di queste zone, tant’è che i decessi in Italia causati dalla qualità dell’aria sono 80 mila all’anno, con una prospettiva stimata dall’OMSdi 250.000 vittime annuali tra il 2030 e il 2050, ma di fronte a questi dati allarmanti non c’è stata una mobilitazione altrettanto forte e puntuale per scongiurare il pericolo.
Perché?
La risposta non è semplice in quanto risultato di un insieme sinergico di elementi razionali ed emotivi che incidono sulla percezione del rischio che i soggetti sviluppano nei confronti di un pericolo, fortemente influenzata sia dal tipo di comunicazione utilizzata che dal loro background socioculturale.
Un importante studio di riferimento per una comprensione più approfondita di questo fenomeno è quello della “psicologia dei disastri” condotto da un professore dell’Università di Torino, Marco Bagliani, che afferma: «L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga. Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi».
A questo si aggiungono anche l’impegno e il sacrificio che un individuo deve investire nella risoluzione del problema, che nel caso del coronavirus appare, pur non essendo ben definito, limitato nel tempo, mentre per la crisi climatica i cambiamenti da apportare al proprio stile di vita hanno una data di scadenza ben definita: nessuna.
Ciò che traspare è dunque l’idea che le persone non siano allo stesso modo colpite dall’idea della perdita della propria vita a seconda di come questa viene loro presentata, poiché risulta molto più difficile connettersi a livello emotivo con un problema quando ci vengono presentati davanti ipotesi e grandi numeri.
Nell’articolo “If I look at mass I will never act” lo psicologo Paul Slovic afferma che nonostante la maggior parte delle persone siano ben disposte ad aiutare gli altri e a contribuire positivamente all’interno della società, esse diventano rapidamente insensibili “davanti ai fatti e alla matematica”.
Quando vengono pubblicati i dati di una tragedia ad esempio è importante che al pubblico venga comunicato il numero di vittime, ma questo non produrrà mai lo stesso effetto della visione delle loro immagini, che davanti al medesimo avvenimentosono in grado di innescare un maggiore grado di empatia.
Secondo Slovic questo passaggio è fondamentale, poiché afferma che tutti gli altri fattori non contino senza l’empatia,che è ciò che ci dice se qualcosa sia giusto o sbagliato ed è l’esperienza che più di tutte guida i giudizi, le decisioni e le azioni delle persone.
Forse il problema della narrazione della crisi climatica è quindi proprio questo: ci risulta difficile empatizzare con il racconto di mari che aumentano di pochi millimetri all’anno, di temperature medie che aumentano di qualche decimo di grado in decine di anni e di città italiane che verranno sommerse solo nel 2060, mentre ci risulta addirittura impossibile non venire fisicamente ed emotivamente coinvolti da una pandemia globale che provoca migliaia di morti ogni giorno e che è riuscita a far allentare la grande e incessante macchina del capitalismo.
Le prospettive future
Ma se la correlazione tra i virus e la crisi climatica fosse ancora più profonda e pericolosa di quanto pensiamo?
Il “Lancet Countdown Report 2019” associa i cambiamenti climatici all’aumento della diffusione di patologie infettive, poiché un pianeta più caldo rappresenterebbe per virus, batteri, funghi e parassiti il luogo ideale per la loro diffusione.
Questo fenomeno si è già manifestato in Siberia nel 2016,quando una forte ondata di calore ha causato lo scioglimento del permafrost e il “risveglio” dell’antico virus dell’antrace, provocando la morte di un adolescente e di un migliaio di renne, arrivando ad infettare decine di persone.
Lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai però non rappresenta un pericolo soltanto per il risveglio di antichi patogeni quali la febbre spagnola (congelata in Alaska) o il vaiolo (riscontrato in Siberia), ma anche di virus a noi completamente sconosciuti come lo era il coronavirus e come sono stati rintracciati in campioni di ghiaccio di 15 mila anni fa prelevati dall’Altopiano tibetano.
L’importante quesito che si apre è quindi questo: se non siamo riusciti ad empatizzare fino ad ora con i grandi e complicati numeri della crisi climatica, riusciremo a farlo dopo averne avuto un’anticipazione?
Correlazione tra l’incidenza del virus e il particolato atmosferico:
https://www.ilsole24ore.com/art/l-inquinamento-particolato-ha-agevolato-diffusione-coronavirus-ADCbb0D
Decessi causati dall’inquinamento atmosferico: https://unfccc.int/files/meetings/marrakech_nov_2016/application/pdf/inc_bustreo_release_it.pdf
Lancet Countdown Report 2019:
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(19)32596-6/fulltext
Elisa Franzo
Elisa Franzo, studentessa di economia nata a Udine nel 1998 ormai naturalizzata parmigiana e POSTina. Mi appassiona leggere e discutere di tematiche sociali, così ho deciso di scriverne.