Negli ultimi anni la consapevolezza circa l’entità dell’emergenza climatica è cresciuta in maniera significativa, probabilmente grazie ad una maggiore attenzione mediatica motivata dall’avvicinarsi dell’evento. 

Circa venti giorni fa, è stato diffuso in Inghilterra il dato di un sondaggio secondo il quale la metà dei cittadini dell’Unione Europea sarebbe favorevole a “sacrificare la crescita per proteggere il clima”.

Questo dato, oltre a imporre al sistema politico europeo la necessità di forzare la frenata della crescita economica (già in atto in Germania), dimostra una maturata comprensione dell’esistenza di un trade-off tra sostenibilità ambientale e sistema capitalista. Con trade-off si intende l’impossibilità di raggiungere contemporaneamente due obiettivi contrapposti, in questo caso i massimi livelli di crescita economica e di sostenibilità ambientale. 

Esso sorge, come spiega G.Hardin in The tragedy of the commons del 1968, dal comportamento opportunistico dei diversi agenti economici che hanno accesso alle risorse non rinnovabili.

Hardin parte dalla definizione di beni pubblici e/o comuni, ovvero di quei beni che, in diversa maniera e per loro natura, necessitano di essere consumati da tutti coloro che ne abbiano accesso in uguale maniera (si pensi all’aria che respiriamo, alle falde acquifere, alle spiagge e ai mari). Successivamente, identifica nell’accesso economico a questi beni un incentivo a sovra-sfruttare la risorsa.

Ogni qual volta uno di noi sceglierà di sovra-sfruttare la risorsa (per esempio prendendo la macchina invece del mezzo pubblico) il beneficio che ne trarrà sarà interamente privatizzato da lui mentre il danno sarà diviso equamente fra tutti. Ecco che, di conseguenza, saremo tutti incentivati ad adottare comportamenti opportunistici che, in aggregato, causeranno l’estinzione del bene comune in questione.

Tutti siamo incentivati ad adottare comportamenti opportunistici che finiranno col causare l’estinzione del bene comune. Come è ovvio, quest’incentivo cresce al crescere del guadagno privatizzato e al diminuire del costo collettivo. Di conseguenza la pressione esercitata dall’industria aeronautica militare sullo sfruttamento del bene comune “ossigeno” sarà di molto maggiore rispetto a quella esercitata dalla scelta individuale del cittadino che, prendendo la macchina piuttosto che il servizio pubblico, risparmierà solo qualche decina di minuti. 

Più nello specifico, è possibile inquadrare meglio The tragedy of the commons nel contesto istituzionale moderno partendo dal presupposto filosofico materialista secondo cui tutti gli individui si comportano e operano in base a una coscienza determinata socialmente e univocamente dal sistema produttivo in cui sono inseriti. Questo comportamento è da considerarsi non solo valido razionalmente, ma anche accentuato, in tutti i contesti istituzionali in cui il l’accesso ai beni comuni è caratterizzato da quei meccanismi competitivi che sono propri di ogni sistema produttivo capitalista. Se, invece, i meccanismi di gestione e produzione dei beni pubblici e comuni fossero improntati a logiche cooperative, allora gli incentivi al comportamento opportunistico verrebbero meno. La redistribuzione dei benefici economici derivanti dallo sfruttamento delle risorse sostenibili porterebbe al riallineamento degli incentivi e all’internalizzazione nelle scelte strategiche dei vincoli ambientali. Quest’ultima sarebbe possibile non solo grazie al riemergere di una coscienza collettiva, ma anche grazie al comportamento massimizzante di agenti che scelgano consapevolmente di rinunciare a margini di profitto e crescita per garantire la sopravvivenza delle risorse e del bene comune.

È quindi necessario uno strumento redistribuivo, che non può prescindere nè dall’esercizio del potere politico da parte della maggioranza, nè dalla messa in discussione del paradigma neoliberista, nè dal riaffermarsi del ruolo dello Stato come agente economico pianificatore.