Ricorrono oggi i 50 anni dal 12 dicembre 1969, il giorno della strage di piazza Fontana a Milano, quando una bomba piazzata da attentatori fascisti alla banca nazionale dell’agricoltura con la complicità dello stato mieté 17 vittime e 88 feriti. Fu l’attentato che inaugurò la strategia della tensione, vale a dire la serie di attentati terroristici compiuti con l’assistenza di apparati militari che avrebbero costellato il successivo decennio in Italia. È compito arduo descrivere quell’evento e quel periodo e raccontarlo ai giovani di oggi: la memoria di quella fase della storia d’Italia è infatti inquinata da decenni di depistaggi e indebolita dal lungo tempo trascorso. Tentiamo comunque di assolverlo, e invitiamo tutti ad approfondire la conoscenza dell’argomento, cruciale per la comprensione dei nostri tempi e di ciò che li ha preparati.
IL CONTESTO
Il biennio 1968-69 fu in Italia e nel mondo un tempo di dura contestazione del potere da parte delle giovani generazioni e delle classi subalterne. Nella primavera del ’68, com’è noto, gli studenti di tutto il mondo si sollevarono in una ribellione generale, che ebbe il suo apice nel maggio parigino, contro gli aspetti retrivi e più conservatori della società del tempo, contro i governi autoritari, in una prospettiva socialista e libertaria (indicativo uno dei più noti slogan del maggio francese, “vietato vietare”). Nel corso dell’anno e, ancor più, dell’anno successivo, la contestazione giovanile si unì a una crescente rivolta operaia, generando un duro scontro sociale che avrebbe segnato il resto del secolo in tutto il mondo e, in special modo, in Italia, dove le lotte dei lavoratori furono particolarmente forti e incisive culminando nell’”autunno caldo” del 1969.
Gli operai italiani nel ’69 erano reduci da un quindicennio di disciplina di tipo militare nelle fabbriche, di bassi salari, di ritmi di lavoro insostenibili. Per le sinistre e per i sindacati, la situazione politica era difficilissima: dopo la fine della guerra, il regime democristiano era stato praticamente incontrastato, il movimento socialista aveva subito divisioni e momenti drammatici e al di là di alcuni momenti alti (come nel 1960) era quasi sempre rimasto sulla difensiva. Inoltre, gli apparati dello stato erano fortemente reazionari, ancora profondamente legati al passato fascista. Per dare un’idea, nella prima parte degli anni sessanta 126 prefetti su 128, tutti i viceprefetti, tutti i questori e i vicequestori appartenevano al personale della polizia fascista del ventennio. Nel 1964, alla vigilia dell’ingresso del partito socialista nel governo, i carabinieri avevano predisposto, come emerse pubblicamente tre anni dopo, un piano di colpo di stato (il “golpe Borghese” o “piano Solo” – dove “solo” sta per “solo i carabinieri”, evidentemente i militari che danno i nomi ai piani non sono particolarmente fantasiosi) la cui sola minaccia fu sufficiente a determinare l’azione del governo che si andava formando.
Per completare il quadro, ricordiamo che in Italia al tempo, come negli altri paesi del blocco occidentale, la NATO disponeva di un’organizzazione paramilitare segreta formata da reduci fascisti e che faceva capo ai carabinieri, denominata “gladio” e che aveva il compito di contrastare il forte Partito Comunista Italiano. La sua esistenza sarebbe stata comunicata a sorpresa da Andreotti alla camera dei deputati il 24 ottobre 1990.
IL 1969 E LA STRATEGIA DELLA TENSIONE
Nel 1969 il movimento operaio italiano era in fortissima ripresa: l’appoggio del movimento studentesco, la combattività dei giovani operai del nord e soprattutto dei giovani operai immigrati dal meridione, le cui durissime condizioni di vita erano particolarmente insopportabili e, inoltre, il repentino e innovativo mutamento delle forme di lotta e organizzative diedero loro uno slancio che gli consentì la conquista di sempre maggiori diritti, condizioni di lavoro e aumenti salariali. La reazione delle classi padronali, terribilmente spaventata, fu inizialmente scomposta, per poi assumere due distinte direttrici. Una sua parte tentò di ammorbidire le posizioni operaie mostrandosi conciliante: frutto di questa linea sarebbe stato lo statuto dei lavoratori, introdotto nel 1970, che indicava i diritti fondamentali dei lavoratori e i cui capisaldi sarebbero rimasti integri fino al 2014. Un’altra parte della borghesia – politicamente rappresentata dalle destre e capitanata, tra le imprese, dalla FIAT – scelse la linea dura iniziando ad appoggiare una repressione sempre più violenta. In ossequio a questo orientamento, dal 1969 al 1980 in Italia si susseguirono atti di terrorismo organizzati da paramilitari fascisti con la complicità dei servizi segreti militari: gli attentati terroristici sono quelli in cui, tipicamente piazzando cariche esplosive, si mietono vittime in maniera del tutto casuale, suscitando nella popolazione la giustificata paura di poterne essere vittima anche se completamente estranea alle vicende politiche. Con atti di questo tipo si intese generare nell’opinione pubblica un movimento favorevole a una più violenta repressione e allo stato di polizia e, in generale, uno spostamento a destra in senso anticomunista del paese.
PIAZZA FONTANA
Quella di piazza Fontana non fu la prima bomba del 1969: ne erano esplose altre, come il 15 aprile all’università di Padova, dieci giorni dopo alla fiera campionaria di Milano, l’8 e il 9 agosto su vari convogli ferroviari e altre ancora furono rinvenute inesplose o disinnescate. Fu però la prima a uccidere: 17 persone morirono e altre 88 rimasero ferite.
L’attentato suscitò reazioni in ogni parte della società italiana. Le sinistre compresero immediatamente il senso dell’operazione, così come lo avevano fatto rispetto ai precedenti attentati non letali, sulla base dell’evidente significato politico. Tuttavia esse non disponevano né delle prove – che sarebbero emerse con lentezza estenuante, come vedremo in seguito – né di mezzi di comunicazione sufficientemente potenti per sovrastare il coro dei media ufficiali che ripeterono incessantemente la versione della polizia – o meglio, le molte e contraddittorie versioni della polizia.
PINELLI E VALPREDA
La questura di Milano escluse subito esplicitamente la responsabilità fascista ed arrestò il giorno stesso l’anarchico Giuseppe Pinelli, indicato come autore dell’attentato. Egli rimase tre giorni in stato di arresto e sottoposto a interrogatori finché, il 15, non precipitò da una finestra del quarto piano della questura di Milano. Apparve subito chiaro che vi era stato gettato per assassinarlo, e le spiegazioni ufficiali apparvero claudicanti e false: la polizia prima dichiarò che egli si era suicidato perché era stata provata la sua colpevolezza, cosa falsa come fu provato durante i processi che lo ritennero innocente e subito smentita dalla polizia che il giorno dopo indicò un altro colpevole, poi giunse alla tesi tragicomica secondo cui egli avrebbe sofferto di una patologia mentale che lo avrebbe spinto in modo irrefrenabile a gettarsi dalla finestra.
Il 16 dicembre fu arrestato un altro anarchico, il ballerino Pietro Valpreda. Indicato come “il mostro” da vasta parte della stampa e dalle autorità, anch’egli sarebbe in seguito stato assolto con formula piena. Per inciso, dal 1945 a oggi in Italia nessuno è mai morto per mano di un attentatore anarchico.
LA LENTA AMMISSIONE DELLA VERITA’
La sentenza della cassazione, che addebita l’attentato a organizzazioni fasciste con il concorso di organi dello stato, è giunta solo nel 2012. Come abbiamo scritto, la matrice fascista era stata individuata da subito dalle sinistre e la complicità dei servizi segreti fu chiara a tutti poco dopo, quando emersero i depistaggi operati dalle forze di polizia e gli arresti di capri espiatori. Tuttavia l’ammissione della verità da parte delle istituzioni fu lentissima, pluridecennale, proprio per via della colpevolezza di pezzi dello stato. Fu il destino che avrebbe atteso allo stesso modo le indagini sulle successive stragi di analoga matrice: Gioia Tauro (1970, 6 morti e 72 feriti), Peteano (1972, 3 morti e 2 feriti), Brescia (1974, 8 morti e 103 feriti), treno Italicus (12 morti e 44 feriti) e Bologna (1980, 85 morti e 200 feriti).I responsabili politici e militari di questi atti avrebbero iniziato a parlare solo molto tempo dopo i fatti, quando il contesto era mutato e il tempo per fare giustizia esaurito.
In conclusione, riteniamo che due fatti soprattutto vadano sottolineati. Primo: la strategia della tensione, come emerso chiaramente in particolare in seguito alle succitate dichiarazioni di Andreotti, non fu opera di apparati militari periferici deviati bensì parte di una strategia deliberata e obbediente al potere dell’epoca.
Secondo: in Italia il terrorismo (non un generico uso della violenza politica, proprio il terrorismo) fu utilizzato solo due volte: nel periodo 1969-1980 da fascisti con la complicità di apparati statali e nel 1993 per mano della mafia quando erano in corso trattative segrete tra essa e lo stato, come è recentemente stato provato dai processi.
Scriviamo questo non per minare la fiducia che ognuno può avere nelle istituzioni ma perché il ricordo della strage di piazza Fontana e di quelle che seguirono ci insegna che sebbene lo stato sia in qualche modo lo stato di tutti, pure di chi non vi si riconosce, non si può e non si deve considerarlo neutrale, imparziale, obiettivo, perché non sempre lo è.